We have the technology
not available before […]
Linked with our machines our eyes are beaming
It won’t matter at all
How weird things are seeming
We need the means to dig deeper
To search below the surface appearance of things
Worlds never dreamed of!
(Pere Ubu, “We Have Technology”, 1988)
https://www.youtube.com/watch?v=T5GGAlWwy6k
Ansie digitali come ostacoli all’apprendimento
In un precedente articolo abbiamo affrontato un discorso forse ancora vago, sebbene sempre più attuale: la tecnofobia, o l’ansia da digitale; lo abbiamo declinato in varie forme, dal timore di perdere il lavoro a causa dell’automazione diffusa e della sempre più ‘reale’ presenza della robotica e dell’intelligenza artificiale, fino a discorsi più calati nella nostra realtà di professionisti della formazione, digitale o meno. Nel fare questo, ci siamo confrontati con professionisti di psicologia e psicoterapia, discutendo su quanto la ricerca e la loro esperienza ci raccontano. Uno scenario di questo tipo, forse estremizzato e semplificato, come impatta sull’eLearning? Da sempre si parla di resistenze alla formazione supportata dalle tecnologie, ma oggi la sfida cambia forma e si colloca su un piano diverso. Se un tempo il digitale era sconosciuto e lontano, e quindi una formazione che ne sfruttasse le potenzialità sembrava troppo ‘oltre’, oggi questo caso si presenta ancora, ma sempre più raramente, mentre magari a creare resistenze sono invece più radicate e diffuse “ansie digitali”, che permeano la nostra condizione odierna. La voglia di fare a meno della ‘e’, almeno nel learning e nell’apprendimento cresce, e con essa quella di costruirsi momenti per staccarsi dal digitale, respirare.
Citavamo, nel primo articolo, il caso emblematico di F., un ex detenuto che, nell’estremo disagio della reclusione in carcere, si è sentito quantomeno sollevato dall’assenza della comunicazione informatica, al punto di affermare, ora che è ‘fuori’, che “vedere le persone costantemente con la testa bassa sul cellulare mette tristezza. Vedo solo teste basse. L’opposto del carcere, dove la gente che incontri ti guarda negli occhi e spesso ti stringe la mano.” Con tali premesse sul vivere quotidiano, forse è normale che la proposta di una nuova piattaforma di eLearning all’interno di un’azienda crei qualcosa di più che resistenze, generando ansie e timori ormai fuori scala. Il compito dei professionisti dell’eLearning, quindi, sia di chi lo progetta e promuove, sia di chi lo adotta come soluzione formativa all’interno dell’azienda, è quello di confrontarsi punto per punto con i problemi suddetti, andando ad individuare ed analizzare non solo i bisogni formativi degli utenti, ma anche cercando di rilevare le loro ansie da tecnologia, per costruire sistemi quanto più accoglienti e anche rassicuranti, inclusivi, gentili. Vediamo nella pratica in che modo questa cosa si può declinare in modo efficace, provando in modo empirico a identificare quali sono le ansie digitali che emergono oggi.
Le 10 ansie digitali con cui fare i conti oggi
L’elenco che segue, come detto, non ha la pretesa di essere né scientifico né esaustivo, ma è volto solamente a fornire una base per la riflessione approfondita su come la progettazione di qualunque artefatto digitale (non solo eLearning) debba essere affrontata per ‘mitigare’ le ansie. Cerchiamo di capire quali sono queste ansie digitali con l’aiuto di Roberto Calatroni e Massimiliano Mariani, specialisti di psicologia del Ruolo Terapeutico, che abbiamo voluto coinvolgere per comprendere se queste nostre intuizioni trovano riscontro nella pratica della terapia psicologica e nel sostrato sociale che è, appunto, ormai permeato di digitale.
1. Velocità: paura non riuscire a restare aggiornati
È questo l’argomento più trito e sdoganato: la velocità con cui si evolve la tecnologia è ben oltre quella che un essere umano può sostenere. Se ci confrontiamo con l’evolversi del digitale, percepiamo tutti un senso di inadeguatezza e ci sembra di invecchiare rapidamente. Un cambiamento di interfaccia del nostro sistema di home banking ci mette in crisi, Google Calendar che si rinnova di colpo e automaticamente cambia aspetto ci fa l’effetto di un amico che ci tradisce. “Certo, però il cambiamento non si può impedire, qualunque esso sia”, ci ricorda Mariani, sottolineando quanto sia importante “operare una distinzione tra la velocità percepita e quella reale di questo cambiamento”. Questo – mi fa pensare – a quanto spesso il professionista del digital (che sia learning o meno) venga subissato da news relative a potenziali nuovi ‘oggetti’ (hardware o software), il cui impatto potrebbe essere molto rilevante sulla sua pratica lavorativa e non, ma che, in verità, solo in minima parte si realizza in tempi così brevi al punto da costringere a una reazione effettiva e/o forzata. Pensiamo alle conferenze in tema formazione aziendale: personalmente ne esco spesso bombardato da vagheggiati sconvolgimenti tecnologici che dall’oggi al domani cambieranno il modo di intendere le risorse umane, per poi realizzare che, in molti casi, si tratta di rimaneggiamenti di cose (LMS, metodologie, teorie dell’apprendimento…) già sentite ed ora (forse) portate a nuova ‘rapidissima’ vita, oppure di tentativi di cavalcare novità prettamente tecnologiche ancora non testate che vanno poi naturalmente ad estinguersi: il caso dei Google Glass è esemplare, nati, morti, risorti, ridirezionati, ora di nuovo sotto i riflettori…
2. Sicurezza: terrore di virus, ransomware e truffe
“Cosa dà sicurezza ad una persona? Spesso è il passato, ciò a cui le persone si appigliano, mentre il cambiamento, la velocità, la dimensione che attiene al futuro è ciò che genera paura, quindi velocità e sicurezza sono strettamente collegate, specie nel mondo digitale che si evolve incessantemente”, commentano poi Calatroni e Mariani, portandoci direttamente al secondo punto. Ormai è veramente difficile sentirsi al riparo da frodi, virus, malware e altri pericoli della rete. Recentemente, anche professionisti del ramo IT hanno confessato di sentirsi vulnerabili e di faticare a riconoscere e-mail di phishing. Il tempo per valutare se un messaggio è una bufala si allunga, la diffidenza si fa largo e le news sugli attacchi di hacker coreani ci fanno più paura delle guerre che abbiamo a poche centinaia di chilometri da casa. Se volete assaggiare un po’ di ansia, fate un check nel sito “I have been pwned”, inserendo il vostro indirizzo mail per vedere se (o, più probabilmente quante volte) è stato hackerato un qualche vostro account.
“La percezione di rischio è estremamente legata alla fascia di età, e cambia molto tra soggetti”, continuano i due psicologi. Sappiamo infatti di quanto gli adolescenti, ma spesso anche studenti universitari e new worker, sottovalutino i rischi della rete, esponendosi a potenziali danni anche molto seri, dove invece altre fasce più ‘mature’ operano una cautela che rischia di sconfinare nella paranoia. E se pensiamo all’eLearning, chi lavora in questo campo si sarà inevitabilmente scontrato con policy di rete in aziende (pensiamo, ad esempio, alle banche) che rischiano, per sensati ma ingombranti problemi di sicurezza, di azzerare moltissimi tentativi di innovazione della formazione che passa per il digitale (pensiamo a sistemi di apprendimento collaborativo o a all’uso di OER che richiedono all’utente di uscire dalla rete aziendale per interagire su siti anche social).
3. Vastità: inadeguatezza di fronte all’infinito della rete
Già di per sé il world wide web, per definizione, ha una vastità inconcepibile. La ricerca di informazioni diventa un’attività avventurosa e faticosissima. Inserire una chiave di ricerca in Google, vedersi restituire milioni di potenziali risultati, ma avere la consapevolezza che quel che cerchiamo forse non è tra quelli, ci spaventa. Le frontiere del nuovo indispensabile hype digitale si allargano sempre più, e ci chiediamo se siamo ormai gli unici a non avere ancora sperimentato l’ultimo grido della Realtà Virtuale. Ma l’aspetto forse opprimente, per chi ne è a conoscenza, è la consapevolezza dell’esistenza dell’oceano del deep web, ossia tutto ciò che i motori di ricerca non indicizzano, che, secondo alcune ricerche, pare essere almeno il 95% di ciò che Google riporta, un luogo virtuale dove, come ricorda Domenico Laforenza del CNR di Pisa, in un’interessante puntata del Caffé di RAI 1[1], ci sono cose potenzialmente inquietanti, ma anche estremamente utili. L’impressione di veder solo la poco significativa superficie di un iceberg, spesso porta a volgere lo sguardo altrove anziché a guardare sotto ed immergersi, se privi di adeguate guide. Ho i brividi quando sento parlare oggi di ‘Netflixation’ della formazione aziendale, con colossi LMS che contengono centinaia di video-lezioni su svariati argomenti per la forza lavoro aziendale, la quale in tale maniera si può auto-formare autonomamente ‘scegliendo’ in questo mare magnum. “La tendenza ad andare verso i grossi colossi digitali, omnicomprensivi, è specchio di questo bisogno di riferimento per fronteggiare la vastità”, ci ricordano ancora una volta le nostre guide psicologiche all’interno di questo percorso in questa terza tappa, quindi, constatiamo l’effettiva rassicurante opzione di affidarsi a un Grande Protettivo Fratello Digitale come Google per sentirsi cautelati, protetti e condotti. Pensiamo allora come una nostra piattaforma possa dare lo stesso senso di ‘comprensività’ rassicurante, senza essere onnipresente.
4. Confusione: il disorientamento tra i propri tanti account e password
“Tuttavia probabilmente avere un unico account – Google o altro – che fa da contenitore, è più semplice e rassicurante rispetto al doversi tenere a mente molte identità differenti, per quanto sia all’atto pratico meno sicuro”, aggiungono i colleghi psicoterapeuti. Certo, alla vastità si collega la confusione: per quanto si cerchi di tenere in ordine le proprie strutture digitali, i propri account, è sempre più difficile per chiunque ricordarsi le password usate in diversi siti (sempre che si segua il consiglio di non usare sempre la stessa, cosa rischiosa ed a volte impossibile). Difficile anche tenere a mente se, per registrarsi a un determinato portale, si è usata la mail aziendale, personale o una ormai dismessa. Il nuovo account alla piattaforma eLearning può generare più di uno sbuffo nell’impiegato che da anni usa la data di nascita della prima figlia come password, se giustamente gli si chiede di usare ‘almeno un numero, una maiuscola, un carattere speciale, simbolo runico ed un ideogramma cinese.’
5. Identità/diffidenza: arrivare a non sapere distinguere tra bot persone
Nel celebre racconto di fantascienza di Philip K. Dick,[2] reso ancora più famoso dal film Blade Runner, si pone il problema di distinguere automi umanoidi dalle persone vere, al punto di arrivare a dubitare del confine. Chiunque abbia sperimentato l’help via chat – offerto oggi come servizio di assistenza da molti siti – avrà avuto la sgradevole impressione di incertezza: sto parlando con un chatbot o un essere umano? “Si va sempre più verso una sovrapposizione tra realtà virtuale e reale, con una separazione sempre meno netta, e se ci pensate questo potrà porre dei nuovi problemi legali, ad esempio relativi alla validità di un filmato come prova di un furto”, ricorda di nuovo Mariani, traghettando la nostra mente verso esperimenti tra la net art e la provocazione socio-culturale, come l’inquietante sito “This Person Does not Exist”, dove un algoritmo pesca dettagli facciali da un ampio database per generare immagini (foto? o non foto?) di persone che non esistono ma sono una commistione di dettagli (zigomi, labbra, orecchie, capelli) di altri. Molte piattaforme di eLearning usano elaborati chatbot per aiutarci e istruire, ma siamo sicuri che i nostri utenti non si approccino al robot della chat con un senso di diffidenza che ne inficerà i risultati formativi?
6. Disorientamento: multitasking e sindrome of aimless browsing
Negli anni ‘90 si parlava di “syndrome of aimless browsing” per indicare la diffusa tendenza dei primi fruitori di internet a muoversi tra un sito e un altro senza meta, senza sosta. Ora questa è praticamente la norma: a chi non è mai capitato di trovarsi su un sito e chiedersi, inquieto, come ci si è arrivati, e perché, senza ricordare più cosa si stava cercando di fare? Calatroni aggiunge che “questa sindrome rimanda a qualcosa di più profondo e non strettamente legato al digitale: è la ricerca di riempimento di un vuoto qualsiasi che alcune persone sperimentano: questa è una cosa che i nostri pazienti adolescenti mi raccontano spesso, ossia ore passate a sfogliare video o immagini su Instagram senza una vera ricerca attiva di contenuti.” Sensatamente, la soluzione in questo caso “è educarsi ad una ricerca attiva”, tema caldissimo quando si parla di competenze trasversali nel mondo di scuola ed università, dove si sottolinea senza sosta l’importanza di trasformare i docenti in facilitatori dell’apprendimento per insegnare ai propri studenti ad imparare, come requisito per lo sviluppo della persona, e quindi anche dell’individuo attivo nel mondo del lavoro.[3]
7. Senso di soffocamento: comunicazione confusa e frammentata
Avere molti diversi canali testuali di comunicazione con la stessa persona, come e-mail, MSN, WhatsApp, Linkedin e chat di piattaforma è sempre più comune, così come lo è sforzarsi a volte di usare il canale che il nostro interlocutore di volta in volta predilige. Il rumore di fondo cresce esponenzialmente con la frammentarietà della comunicazione e ci fa sentire sovraccarichi di parole, messaggi, richieste. “Anche la frammentarietà è una tendenza umana di questa epoca, con annessa la richiesta di flessibilità imposta ai lavoratori di oggi”, ricorda Mariani, facendomi pensare immediatamente a come, nella mia personale esperienza di progettazione in ambito eLearning, qualunque tentativo di portare l’utente a usare canali di comunicazione a lui inusuali e che si sovrappongono a quelli che già usa, ha grosse possibilità di fallire sul nascere.
8. Noia: ripetere operazioni simili ogni giorno, ora e minuto
All’opposto dello stress da continua novità, c’è la noia. La vita quotidiana obbliga a procedure ripetitive e faticose, dall’accompagnare i figli a scuola alle routine lavorative. Il digitale impone i propri riti e ritmi: il download della posta, le procedure del controllo di gestione, il rinnovo forzato della password, il backup settimanale… Un senso di noia, quasi nausea, aleggia attorno a certi gesti digitali inevitabili e ripetitivi. Massimiliano Mariani: “I contenuti proposti in automatico ci spingono in un loop dove continuiamo a trovare conferme alle nostre idee, e se non abbiamo senso critico saremo sempre più illusoriamente rassicurati.” Bilanciare novità nei contenuti e prevedibilità nelle modalità di erogazione dell’apprendimento può essere forse una modalità da esplorare.
9. Invasione: ansia da onnipresenza digitale
Di norma accogliamo con piacere la conversione di servizi che da analogici diventano digitali: pensiamo alla Pubblica Amministrazione e alle possibilità di compilare modulistica per l’INPS senza recarci in una delle sedi a fare coda. Tuttavia, se l’altra opzione (interagire con una persona ad uno sportello) viene del tutto negata da un servizio al 100% tecnologico, ci sentiamo oppressi dal digitale ed esclusi dalla relazione. Inoltre sviluppiamo un fastidio all’onnipresenza di device e del loro impatto visivo, uditivo, sugli ambienti fisici che viviamo, al punto di sognare per le nostre vacanze degli eden in cui cellulari e computer siano banditi (come in carcere). Curiosamente, i colleghi psicologi su questo punto attingono ad un vissuto prettamente personale, forse colti sul vivo da qualcosa che li riguarda, poiché Massimiliano si dice stressato dagli amici che propongono l’ennesimo sistema nuovo di messaging da adottare, che va a permeare di digitale un ennesimo aspetto del loro vivere e lavorare, mentre su un piano più psicologico sottolinea come “il sovraccarico è in qualche modo cercato come riempimento: siamo in una società che fa estrema fatica a sopportare il vuoto.” Allora forse è essenzialità la parola d’ordine per il professionista dell’eLearning nel momento in cui progetta contenuti e servizi di formazione, se possibile sempre blended.
10. Dipendenza: il terrore di dover far senza
I punti fin qui esposti farebbero pensare che non ne possiamo più, ma non riusciamo a fare a meno del digitale. Il cicalino di un messaggio giunto sul nostro telefono ci mette in uno stato di sottile tensione: siamo in riunione ma potrebbe essere la babysitter che ci avverte di un problema, o quel cliente che finalmente si fa vivo. Passiamo accanto al telefono e lo prendiamo in mano senza ragione, scarichiamo la posta appena svegli o sfogliamo qualche immagine su Instagram prima di dormire, senza farlo in maniera cosciente. E in viaggio portiamo caricabatterie di riserva spaventati dal non poter essere connessi, ormai dipendenti dal mondo virtuale. C’è chi è più o meno affetto da tutto ciò, e siamo tutti pronti a portare esempi di chi, più di noi, esagera nell’uso del cellulare (moglie, figli, colleghi, amici, genitori). Con orrore ho visto presentazioni di progetti di eLearning dove fieramente venivano proposti meccanismi ‘addicting’ per agganciare i formandi tramite sistemi mutuati dall’ambito social. Quando si parla di engagement e gamification questo è tristemente comune. La domanda è però poi: è vero che se ho agganciato l’utente intrappolandolo nel mio sistema di erogazione di contenuti e di formazione sta imparando, o è lì solo perché ce l’ho condotto con un sottile inganno? È un po’ come se un maestro di scienze a scuola si vantasse di avere alunni fedeli e sempre presenti con entusiasmo alle proprie lezioni di storia perché sfrutta la loro dipendenza da Angry Birds per fargli ‘studiare’ i volatili (cosa che in verità può funzionare, e anche bene, ma con parecchi accorgimenti).
Quali proposte per l’eLearning?
Anche noi, cercheremo di fermarci prima di esagerare nella scrittura di questo lungo articolo, che speriamo non essere troppo pretenzioso nel suo puntare il dito in 10 diverse direzioni di ansie tecnofobiche vere o presunte. La speranza di chi scrive è che il lettore si specchi negli esempi sopra riportati e che faccia un piccolo lavoro di maieutica introspezione da un lato, ed empatica osservazione dall’altro – specialmente, vista l’utenza di questa pubblicazione – se si tratta di progettisti della formazione. Non abbiamo proposto ricette, ma disseminato consigli, più o meno vaghi, in merito alle ansie raccontate, sulla cui significatività a livello socio-psicologico ci sentiamo confortati dal confronto con i colleghi del Ruolo Terapeutico, che ci hanno confessato di condividere con noi quantomeno il legame tra gli elementi di disagio da un lato e di rieducazione/formazione dall’altro, che nel loro campo si concretizza come terapia psicologica. Nel nostro, mi auguro che contribuisca a ripensare la progettazione del digital learning tenendo conto di quanto sopra elencato, sempre e senza esclusione lavorando caso per caso, rilevando bisogni e specificità di ogni progetto di formazione. Le citate differenze di età, attitudine, competenze, sono parte determinante della progettazione di dettaglio di qualsiasi percorso formativo e didattico. Vogliamo chiudere ancora con una considerazione di Calatroni, che afferma: “io credo che chiunque abbia a che fare a vario titolo con il digitale abbia sperimentato alcune di queste ansie nel proprio vissuto, ma chi sopravvive, anche in natura, è chi riesce ad adattarsi. Anche in terapia, il punto non è evitare i traumi, ma saper stabilire nuovi equilibri dopo che questi avvengono”.
Matteo Uggeri