Sfide, punteggi, classifiche, premi, trofei, coppe, medaglie, badges, spillette, vessilli, vincitori e vinti: ecco le parole che infaustamente sembrano emergere – anzi, vincere! – su qualsiasi altra quando tentiamo di affrontare il tema della cosiddetta gamification, specialmente se siamo in campo aziendale. In parte, possiamo candidamente ammetterlo, ci sta. Durante una chiacchierata sui potenziali costi/benefici dell’eLearning, il CEO di una grossa multinazionale mi ricordava beffardamente che per loro restava comunque primario “quel vecchio vizio di fare profitto”. Però, di qui a dire che “l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi e dalle tecniche di game design in contesti esterni ai giochi” (la definizione di Sebastian Deterding riportata su Wikipedia) è da declinarsi esclusivamente in termini di competizione a chi guadagna di più, anche in un contesto di formazione aziendale, ne passa. Spesso il punto è che, sia a livello tecnico che a livello ideativo, virare gli aspetti ludici verso punti e classifiche è quanto di più facile ed immediato. Lo dimostra anche la grande quantità di piattaforme LMS, da Moodle a Docebo, che offrono integrato al loro interno un pacchetto gamification con questa attitudine, quantomeno di default. Se poi diamo un’occhiata al sito Compare Gamification Products, eccone una quantità infinita di esempi tutti sulla stessa falsa riga (http://technologyadvice.com/gamification/products). Il sito è americano, e molto americano è anche l’approccio di cui stiamo parlando, peraltro molto vicino all’ottica del “test’” sempre più tristemente diffusa nel mondo anglosassone (e nell’eLearning in generale) quale strumento di assessment delle conoscenze e (peggio ancora) delle competenze. Uno dei gamification guru del momento, Karl Kapp, afferma che “in the end the gamification platforms are all about questions”. Bella roba, affermiamo allora noi. Fin qui la pars destruens del presente articolo. Ma ci piace costruire. E ci piace creare. Più raramente il discorso “gioco” viene affrontato partendo dalla sua connotazione creativa, cui si lega il termine americano “play”, che significa anche suonare, recitare… Anche in tema di serious games, ossia (video) giochi a valenza didattico-trasformativa, di norma è l’usare il gioco (progettato e realizzato da specialisti) ad essere formativo. Molto più raramente si parla di creare un gioco, o di giocare per sperimentare e aprire nuove strade all’immaginazione. Il paradosso più grande è che gli ormai tanti sostenitori della gamification a tutto spiano, specialmente in campo marketing, amano ricordarci che noi umani in primis impariamo giocando, quando siamo bambini. Dimenticano però che nella nostra prima fase di sviluppo il gioco è soprattutto sperimentazione, creazione e condivisione, e include prime forme di espressione artistica come il disegno o la manipolazione e l’assemblaggio di oggetti. Perché ne parliamo in contesto di formazione aziendale? Per due ragioni: la prima è che le sperimentazioni ludiche nella formazione sono un trend del momento, ma come detto sopra sono troppo spesso incentrate su modelli superati, e spesso danno risultati mediocri (e sovente difficilmente misurabili) la seconda è perché all’estero c’è chi ha già fatto un bel passo oltre, lavorando appunto sul lato creativo della dinamica ludica in contesti formativi. Ad esempio, da qualche anno in Spagna (http://cookiebox.es/), Inghilterra e ovviamente USA (https://www.instituteofplay.org/workshops) s’è cominciato a sfruttare il formato delle game jam all’interno del mondo aziendale. Si tratta di un tema più familiare ai nerd, ma ormai se ne parla spesso anche nella stampa nazionale: la game jam, per chi non l’avesse mai sentita nominare, è un format di due giorni (spesso anche meno, ma a volte una settimana o più) all’interno del quale viene chiesto ad un numero variabile di partecipanti di realizzare un gioco su uno specifico tema. Alla Global Game Jam (http://globalgamejam.org/news/waving-goodbye-ggj17) del 2017 sono stati 36.000 in un totale di 95 paesi e 7000 giochi realizzati in due giorni.
Approfondimenti
Gamification in azienda: il gioco come strumento creativo e non competitivo
Di norma si tratta di un videogioco, ma può trattarsi anche di un gioco in scatola (di carta) a noi piace parlare di artefatto ludico. La frontiera più interessante, in questa sede, è quella dei serious games, ossia quando ai partecipanti è richiesto di ideare e realizzare giochi appunto a valenza didattica, finalizzati a operare o invogliare una trasformazione in chi li gioca. Il progetto internazionale JamToday ha stabilito le basi di un network che se ne occupa e che finora in tre anni di lavoro ha organizzato 36 jam e permesso la realizzazione di più di 100 serious games. Tutti scaricabili qui, per chi fosse curioso: http://www.jamtoday.eu/ L’aspetto notevole sta proprio nel formato: riunire un gruppo di persone che potrebbero non essersi mai viste prima, o conoscersi poco (come spesso i colleghi di un’azienda, ad esempio), dividerle in gruppi, dare loro un tema specifico su cui lavorare (es. la comunicazione orizzontale tra reparti diversi della propria azienda) e chiedere loro di realizzare un gioco che affronti il tema in ottica serious game. Se si punta a realizzare prototipi molto semplici non occorre che abbiano conoscenze pregresse in tema di sviluppo giochi, ed esistono numerosi software che permettono di creare giochi da zero senza troppe difficoltà. A volte basta lavorare sull’idea del gioco (si parla di game storm, ossia un brainstorming ludico), oppure ci si può far affiancare da appositi mentor che si occupano di guidare i partecipanti nella progettazione e realizzazione. Ci sono molti livelli e modalità: funziona con i bambini (https://lostinpixel.com/2017/01/16/notte-infestata-nella-biblioteca-workshop-videogame-alla-biblioteca-dei-ragazzi-di-rozzano/) ed anche con gli adulti. Osservare le persone mentre lavorano in questo modo permette di vedere e valutare in modo diretto ed efficace soprattutto quelle soft skills o competenze trasversali (http://elene4work.eu/) che il mondo del lavoro di oggi fatica tanto a valutare, valorizzare e migliorare. Le potenzialità sono enormi, ad esempio nel recruiting: io, HR, posso osservare come lavora in team una persona, come affronta lo stress: spesso le game jam includono la notte! Oppure si prestano al team building e alla ri-strutturazione di gruppi di lavoro: osservo come emergono i talenti nascosti, chi lavora bene con chi, quali sono le dinamiche che si instaurano e quelle da valorizzare o scoraggiare. Queste sono, almeno parzialmente, le stesse cose che si cerca di estrapolare nei programmi di gamification di cui parlavamo prima, organizzati però via software su competizioni sterili che spesso rischiano anche di incentivare processi deleteri tipici del mondo aziendale, dalla mancanza di collaborazione alla difficoltà ad affrontare il problem solving in maniera creativa. Ci sono poi anche tante vie di mezzo, ossia videogiochi fatti e finiti che per loro natura sono pensati e sviluppati per consentire al giocatore enormi spazi di creatività: si tratta dei cosiddetti sandbox games, dei quali la punta di diamante è il celeberrimo Minecraft,quella sorta di Lego digitale che sta conquistando fette sempre più ampie di appassionati e che da poco ha anche una (ancora acerba, a dire il vero) versione Educational (https://education.minecraft.net/). Lavorare con team di studenti, ma anche di impiegati aziendali, che si cimentano nella creazione di mondi virtuali sulla base di obiettivi didattico/formativi è una frontiera tutta da esplorare e da sfruttare per favorire lo sviluppo di processi creativi di problem solving. So cosa pensate: a parlare in azienda di “sviluppo della creatività” (a meno che non si tratti di settori dove questa è richiesta direttamente dai processi produttivi, ad esempio nella moda o nella pubblicità) sembra di bestemmiare: come a dimenticare che in cima alla piramide di Maslow l’autorealizzazione contenga in maniera assolutamente esplicita e centrale proprio la creatività, che è chiave fondamentale per il solito problem solving. Il campo che, almeno in Italia, sembra essere all’avanguardia, è quello della scuola, dove (nonostante gli spaventosi tagli operati a livello governativo) sussistono esperienze eccezionalmente innovative. A tal proposito consiglio l’ultimo numero di Bricks (http://bricks.maieutiche.economia.unitn.it/la-rivista/2017-marzo/– marzo 2017) su Realtà Aumentata e Virtuale, che espone in maniera chiarissima, aperta e condivisa una serie di sperimentazioni giocose e creative all’avanguardia. Nella mente di un HR manager o di un progettista di eLearning i casi riportati suonano meravigliosamente mutuabili (con le dovute accortezze) nel mondo aziendale. In uno di questi articoli Giorgio Guglielmi (IL LEGIONARIO “AUMENTATO” – Un esercizio di lessico latino in “realtà aumentata”) ci ricorda come le metodologie di cui parliamo “rientrano appieno nelle caratteristiche fondamentali del Design-based learning, permettendo agli studenti di creare gli oggetti del loro processo di apprendimento e raggiungere le fasi più complesse di pensiero”. Quindi forse, sia a scuola che in azienda, è ora di finirla con le classifiche e i punteggi, e quando si comincia a parlare di gamification fare qualche sforzo in più per declinarla in termini creativi e non competitivi, anche se è molto più difficile da progettare e – da non dimenticare – molto più difficilmente si presta a quel “fully online” che nell’eLearning da anni rappresenta il tentativo estremo di applicare le economie di scala e di avviare facili scorciatoie verso la formazione di grandi numeri. Concludo quindi con l’affermazione di Sander Van der Vegte (http://sandervandervegte.nl/), dal bel libro “Textural Videogames: Universi per un’Esperienza Emozionale”, quando parla di giochi creativi come Minecraf: “Un’intera generazione sta crescendo con questi giochi, fruendoli come se fossero lo standard. Se queste persone inizieranno a sviluppare giochi professionalmente, vedremo un incremento di titoli non basati sul punteggio o sulla progressione dei livelli. Non vedo l’ora che questo avvenga il futuro del videogioco è luminoso.” Speriamo lo sia anche quello della formazione.
Matteo Uggeri
L’autore ringrazia Silvia Innocenzi e Luca Roncella