Conversazioni – Chiara Moroni intervista Fabio Nascimbeni dell’Universidad Internacional De La Rioja
C. M.: Potrebbe darci qualche informazione nell’ambito Open Education, riassumendo brevemente lo stato dell’arte di questo movimento e spiegandoci di cosa si tratta?
F. N.: Il movimento Open Education è un movimento abbastanza complesso, ha in sé un’anima di ricerca e innovazione e un’anima di Advocacy, quindi un’anima grazie alla quale gli attori della società civile, i rappresentanti degli insegnanti e dei professori cercano di cambiare un po’ le cose. Un movimento che nasce in realtà negli anni settanta con le Open University, ma esplode pochi anni fa (una decina), grazie alle possibilità che le tecnologie danno per quanto riguarda la creazione, l’uso e il riuso di materiali online. Per molte persone Open Education è sinonimo di Open Educational Resource (risorse educative aperte), in effetti da sole possono cambiare in maniera sostanziale molti aspetti dei processi di apprendimento, nelle scuole, nelle università e in azienda. In realtà il movimento sta evolvendo, ottenendo una serie di importanti successi sta maturando e sta iniziando, da qualche anno, a occuparsi di quello che è un discorso riguardante l’apertura e lo sdoganamento delle risorse, sia in termini di licenza che di uso tecnologico si sta occupando sempre più di pedagogia aperta, di design aperto e di ricerca aperta, quindi di tutto ciò che è l’Open Access nella ricerca sta iniziando ad affrontare problemi diversi, tra cui quello tecnologico che in parte è stato superato. Sul tema legale delle licenze si è fatto molto e credo che ora i problemi principali, la questione principale sia una questione di sostenibilità, quindi di Business Model per l’educazione aperta e, allo stesso tempo, di innovazione. Una volta raggiunti questi obiettivi, ci si sta chiedendo che cosa può fare l’Open Education per cambiare le cose, non solamente per migliorarle in una certa misura.
C. M.: L’Open Education rimane esclusivamente nell’ambito universitario oppure ha anche un qualche impatto nel settore corporate?
F. N.: L’ambito universitario e l’ambito scolastico, dunque dell’educazione formale, sono sicuramente gli ambiti in cui esiste più ricerca, più cose per quanto riguarda l’Open Educational Resource. Una delle parole chiave è Mooc, un corso aperto e massivo che permette la partecipazione di centinaia di migliaia di utenti, un fenomeno che ha dato visibilità sia all’educazione aperta sia all’e-learning in quanto tale già dal 2009 e soprattutto dal 2012. Il fenomeno di Mooc si può chiaramente adattare a realtà corporate, così come l’uso di risorse e di metodologie aperte il movimento dell’Open Education diventerà rilevante nelle aziende nei prossimi anni, perché è adesso che si sta collegando il concetto di open (aprire le risorse), con il concetto di collaborazione. Si parla spesso di open and network scholar o teacher, quindi si mettono insieme la dimensione di apertura con la dimensione di collaborazione online, e questo ha chiaramente un potenziale di grande interesse per le aziende, perché non solo consente di aprire e migliorare la collaborazione per l’apprendimento, per la creazione di competenze dentro le stesse aziende, ma anche per la filiera. Quello che si dovrà imparare dalle università è fare le cose in maniera aperta, producendo non solo dei risultati a breve termine, quindi costi minori e maggiore trasparenza, ma anche risultati a lungo termine. Sembra che la collaborazione online, quando è basata su pratiche aperte, funzioni meglio. Nell’ambito aziendale questo si sta esplorando o si dovrà esplorare.
C. M.: Ci sono delle difficoltà che possono rendere più difficile l’accettazione di questo tipo di paradigma o impedirne l’adesione?
F. N.: Uno studio americano dice che nelle imprese le persone con le maggiori resistenze, riguardo l’apertura degli approcci (utilizzare Mooc, ad esempio), non sono gli utenti di questo nuovo tipo di formazione, bensì coloro che la formazione devono metterla in piedi, quindi gli e-learning Officer Chef (Learning Officer). Questo rispecchia esattamente quello che succede nelle università, in cui la principale resistenza non è tanto dei decisori, dei leader delle università che, per essere al passo con i tempi, vogliono avere il proprio Mooc o l’e-Mooc, né da parte degli studenti che sono abituati a lavorare in rete e a condividere risorse, ma proprio dagli insegnanti e dai tutor, perché si vedono soppiantati, sentono il pericolo. La ricerca dimostra come gli insegnanti non riescono ancora a sentirsi bene in questo ruolo di mediatori del processo di apprendimento, sembra – dalle poche cose che sono riuscito a recuperare – che questa sarà la principale challenge. Un altro problema sarà quello del ruolo dell’apprendimento informale dentro l’azienda, perché tutto ciò che è conoscenza tacita, nel momento in cui si adottano approcci aperti o di rete, diventa meno tacita, quindi esce allo scoperto, quindi va a modificare anche rapporti di potere, rapporti consolidati.
C. M.: Come viene gestita la certificazione sia nelle università sia in azienda?
F. N.: Ci sono molti esempi di certificazioni innovative che vanno in parallelo rispetto alle certificazioni classiche, per esempio il movimento Open Badge o i portfolio. Il movimento Open Badge, lanciato da Mozilla qualche anno fa, molto probabilmente è trasferibile e già utilizzato in certi casi in azienda. Mentre la certificazione classica delle Corporate University, per quanto riguarda le aziende, sta faticando abbastanza. Ci sono molte situazioni intermedie in cui viene riconosciuta la partecipazione a un corso vengono riconosciute le competenze ma senza un certificato ufficiale, perché avrebbe un costo troppo elevato. Ci sono casi, cito la OER University in Nuova Zelanda (un consorzio di università con molti partner in giro per il mondo), che sta sperimentando un primo anno di educazione universitaria online completamente gratuito e con un certificato a basso costo. Questa cosa si sta lanciando e, se dovesse funzionare, avrebbe un impatto nel mondo universitario e nel mondo aziendale.
C. M.: Davvero interessante. Quali sono gli scenari che si possono intravedere? Cosa riusciamo ad anticipare, se questa strada effettivamente verrà percorsa nei prossimi anni in azienda?
F. N.: Sicuramente uno scenario di maggior integrazione fra l’apprendimento formale e l’apprendimento esperienziale in azienda. Il settanta per cento di attività di creazione di conoscenza e di competenza che succedono dopo un corso, nel momento in cui aumenta la trasparenza, grazie all’uso di risorse aperte o pratiche aperte, dovrebbe diventare più rilevante e più visibile. Questo, aggiunto a nuove pratiche di certificazione sia interna che esterna all’azienda, quindi rivolte verso possibili talenti che l’azienda vuole attrarre, avrà un impatto in termini di efficienza e di riusabilità delle risorse e delle pratiche. Un approccio un po’ più costruttivista: non riiniziare i corsi da zero, ma dalla conoscenza che si è prodotta nell’edizione passata insieme agli studenti. Ciò provoca un cambiamento nella percezione di sé nello studente e nel formatore, in quanto mediatore e non formatore in senso classico. Nell’Higher Education la rivoluzione è in corso, ma siamo lontani dal tipping point. Nel mondo corporate siamo un po’ indietro, ma non vedo una dinamica molto diversa. Il mondo corporate può imparare molto da quello che sta succedendo nelle università.
Staff skilla