Approfondimenti

Soft skill: come svilupparle giocando

Per chi lavora nel ramo dell’eLearning e della formazione, il termine gamification è diventato un qualcosa che da tempo rischia di suscitare reazioni discordanti, dallo spropositato entusiasmo allo scetticismo più spinto, fino al rifiuto violento. Quindi mi sto abituando a pronunciare tale parola con una certa cautela, per due ragioni:

  1. so di poter suscitare un debordante interesse, una voglia smisurata da parte del professionista in questione di gamificare anche le toilette aziendali (la qual cosa esiste, vd. immagine sotto)
  2. in altri casi la reazione è opposta: rischio di dovermi preparare ad una lotta verbale (se non fisica) per giustificare la potenziale utilità di ‘inserire processi ludici all’interno dei processi formativi’ (a quel punto la parola gamification è bandita dal dialogo).

gamifitacion Sto ovviamente estremizzando, e sappiamo tutti che ci sono infinite vie di mezzo, ma questi due estremi ben rappresentano l’attitudine che ricercatori, formatori o CEO aziendali hanno verso questi temi. Una cosa invece sulla quale generalmente si trovano tutti d’accordo è l’importanza, ad oggi, di investire sulle soft skill dei propri dipendenti, in particolare sulle digital skill. Nel vasto e fumoso insieme di intersezione tra questi due argomenti, ossia gamification e competenze trasversali, si colloca il contenuto di questo articolo, che vuole esplorare alcuni esempi concreti in merito, partendo dall’esperienza di professionisti del settore che progettano e creano artefatti digitali volti a rilevare, rafforzare o incrementare tali competenze. Parliamo dunque con chi si occupa di eLearning, o di giochi, o di entrambe le cose.

Gamification ed engagement: la lezione dei videogame

Uno dei punti che ci interessa capire meglio è l’opportunità di rivolgersi al gioco, in quali contesti si applica, quali problematiche ci aiuta a risolvere. “Non sempre la gamification è la risposta giusta. Ci sono un gran numero di risposte possibili per incrementare l’engagement all’interno dei percorsi formativi”, ci dice Silvia Innocenzi, Project Manager ed accanita giocatrice, impiegata presso Amicucci Formazione, menzionando la parola ‘engagement’, altro refrain ricorrente nel campo non solo del marketing, dove è centrale da sempre, ma anche nel training. L’adagio vorrebbe infatti che ‘a tutti piace giocare’, e che gioco vuol dire coinvolgimento. Invece non sempre è vero, e soprattutto non tutti i giocatori sono uguali. “La maggior parte delle volte ci viene richiesta ‘gamification un tot. al chilo’”, continua Silvia, “ritenuta utile a svecchiare dei processi formativi che si ripetono sclerotici da decenni. La speranza dei committenti è così di rendere accattivante il Decreto Legislativo 231, ad esempio. L’idea è che la gamification possa rappresentare una patina di vernice brillante e attraente. Il che può anche essere, per un primo periodo. Poi però l’effetto novità svanisce e resta la stessa sostanza e l’identico processo, senza alcun vero cambiamento.” Il processo di apprendimento è infatti una trasformazione che avviene nel discente, e tale trasformazione, per essere efficace, deve spesso affrontare livelli profondi di chi sta imparando, specie se appunto parliamo di soft skill, ossia di aspetti della propria personalità, del proprio io. “Il videogioco ha una peculiarità molto significativa rispetto ad altri mezzi: quando ne riportiamo la fruizione, ci ritroviamo inevitabilmente a parlarne in prima persona”, ci dice Matteo Pozzi di We Are Muesli, una brillante indie game company che sviluppa giochi basati su quello che lui e Claudia Molinari, l’altra metà della piccola azienda, chiamano ‘unconventional storytelling’. “Quando viviamo l’esperienza di un videogioco, siamo noi – in prima persona, appunto – ad averla attraversata, ad averle dato forma”, prosegue, “È l’identificazione – e di conseguenza l’empatia – il vero superpotere distintivo del gioco, a maggior ragione di quello narrativo: storie di cui, per affinità o per divergenza con il punto di vista scelto e progettato dal game designer, siamo noi i protagonisti, con tutte le meravigliose conseguenze del caso.” I game progettati dal due WAM ci mettono infatti di fronte a situazioni nelle quali anche i nostri stati emotivi entrano in gioco in modo evidente, in cui siamo noi stessi come degli ‘eroi di un cambiamento’ che però è interiore, un cambiamento che può ad esempio andare a toccare i nostri valori morali. Ne è un esempio brillante il gioco “20 mesi”, una collezione di storie interattive sulla Resistenza e la Liberazione dal nazifascismo. gamification Ma ritorniamo più vicino, cerchiamo di riprendere il filo che lega tutto questo con la formazione aziendale. Esistono già parecchi giochi realizzati proprio con questo obiettivo, ad esempio i Atti2de, che si rivolge all’ambito del recruiting, aiutando chi lo usa a scoprire gli aspetti legati al self-knowledge e alla career guidance. Tramite questo gioco le aziende possono ad esempio identificare con più facilità i migliori candidati e migliorare i processi di reclutamento. gamification Altro esempio interessante è Digital IQ, che permette di effettuare una valutazione delle proprie digital skill rispondendo a una serie di domande, il tutto incapsulato nell’allegoria quadro di un viaggio spaziale. Entrambi questi giochi sono stati sviluppati dal team di Forge Reply, ossia la branca dedicata al mondo del gaming dell’immensa azienda di consulenza Reply. Abbiamo chiesto a Luca Buzzi, project manager dell’azienda, di dirci quali sono state le difficoltà incontrate nel progettare questi giochi: “La misurazione stessa della soft skill è una sfida data la loro natura trasversale. Per questo in generale è difficile creare situazioni che siano in grado di misurare una sola di esse alla volta in maniera significativa e senza contaminazioni di altri fattori. Nel dettaglio risulta particolarmente complesso creare esercizi di breve durata e separati tra loro mentre è stato più semplice farlo all’interno di un gioco narrativo basato sull’immedesimazione.” L’accento sulla breve durata è tutt’altro che banale: viviamo in un’epoca digitale in cui sembra essere la fretta la forza trainante di tutto quello che facciamo, sia come utenti che come progettisti. Quindi la richiesta di molti committenti è di avere giochi ‘semplici, che si capiscono in un attimo e che si giocano in pochi minuti’. Magari realizzati in poche settimane di lavoro. La qual cosa può, forse, andare bene per trasmettere contenuti estremamente semplici, quali appunto le leggi sulla sicurezza (cosa comunque di cui dubito lo stesso), ma se parliamo di competenze trasversali, oltre alla fase di progettazione, infinitamente importante, va considerata anche una fase di analisi approfondita se non di ricerca vera e propria: “In entrambi i progetti [Atti2de e Digital IQ, NdA] abbiamo lavorato a stretto contatto con un comitato scientifico di psicometristi, psicologi e docenti e ricercatori universitari esperti nella gestione delle risorse umane. gamification

Ci hanno fornito degli algoritmi da applicare nel calcolo dei punteggi frutto delle loro ricerche e conoscenze.” E non solo: ma giochi come questi non possono essere rilasciati prima di una lunga e articolata fase di test. “Esatto. Infatti, per affinare gli algoritmi, nella prima fase di vita di ciascun progetto, sono anche stati eseguiti dei test su un numero elevato di campioni verificando eventuali scostamenti tra i risultati dei nostri giochi e l’esito di test più classici.” Quindi, in guardia: se avete in mente di entrare nell’affascinante e pericoloso mondo dei game sulle soft skill, sappiate che non sarà ‘semplice e veloce’, e che difficilmente potrete contare su ricette precostituite. Per esperienza, uno degli errori che vediamo più spesso fare da parte dei committenti è partire da una propria idea di gioco, ad esempio un certo specifico genere videoludico (adventure, puzzle, o quant’altro) ed applicarlo ad un determinato oggetto formativo. “Vero. Oppure, un’altra follia che ci viene spesso richiesta è di adattare un videogioco specifico, con tanto di titolo presente sul mercato, con il fine di veicolare dei contenuti standard”, ci dice ancora Silvia Innocenzi di Amicucci Formazione. “Il problema, a parte il costo esorbitante che una richiesta del genere comporta, è che il videogioco scelto ha sovente pochissimi o nulli punti di contatto con quanto si vorrebbe trasferire. Non risulterebbe quindi affatto utile al raggiungimento degli obiettivi fissati. Quindi, pur volendo affrontare l’effort economico e organizzativo i risultati sarebbero presumibilmente assai scarsi.”

L’importanza del game design

Ma allora è inaffrontabile ‘gamificare i processi di skill empowerment nell’azienda’, direte a questo punto voi, che avete iniziato a leggere questo articolo pieni di amore per l’innovazione e di speranza di rinnovamento? Costa troppo, in termini di tempo, risorse umane, denaro, quindi meglio il caro vecchio corso eLearning, con le dispense in PowerPoint e qualche video? Niente panico: non stiamo dicendo questo. Ciò che ci preme fare è stressare il punto relativo alla progettazione, al design (cosa che peraltro vale in qualsiasi campo, pure per fare delle sensate dispense in PDF). Ce lo ricordano proprio, di nuovo, Matteo e Claudia di We Are Muesli: “Sinceramente non crediamo alle formule preconfezionate a volte raccontiamo il game design, per come lo concepiamo – ovvero come una branca della più ampia disciplina del design, della progettazione – come un ‘tetris’ di elementi (estetici, meccanici, funzionali) per i quali non esiste la combinazione universalmente perfetta, ma tante diverse combinazioni possibili a seconda della situazione, del problema, dello scopo – in una parola, per parlare di videogioco applicato in ambito aziendale, culturale o altro, del ‘brief’. Tutto, o quasi, è narrazione tutto, o quasi, può quindi essere narrazione interattiva: si tratta, ancor più che di chiedersi ‘come’, di chiedersi ‘perché’”. Quindi, ciò che ne emerge è che queste combinazioni di elementi, in alcuni casi anche già esistenti, o quantomeno testati, sono infinite ma gestibili. Possono essere dei punti di partenza per una progettazione sensata e vincente, senza tempi biblici ma con il buon senso di partire sempre da un’osservazione attenta dei fenomeni su cui voglio influire, in primis dalla loro misurazione. In fondo, assomiglia al caro vecchio ‘metodo scientifico’, sebbene qui vada investita anche una grande energia creativa. “Ogni caso specifico è un mondo. Ogni risposta va accuratamente progettata per il dato contesto”, conclude Silvia. “Quello che amo della gamification è precisamente il fatto che pone il proprio focus sul processo di game design. È un processo non deterministico che ha delle componenti aleatorie e arbitrarie, facenti capo a tutte le attività creative, ma che vanta ormai un bagaglio di strumenti articolato e ben rodato.” Creare un gioco è creare un mondo? Forse sì. Le potenzialità che ci offre oggi la tecnologia sono sempre maggiori, e i confini si spostano un passo più in là ogni giorno che passa. La formazione aziendale non può prescindere dall’affrontare il discorso in maniera seria e deve, a nostro avviso, cercare non solo di cavalcare l’onda, ma di precorrere i tempi. HR manager e trainer devono essere i primi a sperimentare con curiosità le potenzialità didattiche dei sempre più diffusi ed invasivi ‘mezzi ludici’. Pensate anche alle realtà virtuali e alle loro più recenti derive… mondi così immersivi ci invitano a viaggiare al loro interno e all’interno di noi stessi, ad esplorare maieutici percorsi di autoanalisi che possono andare anche ben oltre le soft skill. Ma per adesso fermiamoci qui. Ne parleremo nel prossimo articolo, dedicato proprio ai neurogame come tramite verso l’autoconsapevolezza dei nostri stati emotivi.

Matteo Uggeri Fondazione Politecnico di Milano

Scritto da: Matteo Uggeri il 6 Settembre 2018

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